Riporto qui di seguito una approfondita e interessante nota critica che la poetessa Stefania Di Lino, che ringrazio infinitamente, ha voluto dedicarmi per il mio recente libro di poesie "Il lato basso del quadrato", Edizioni La Vita Felice.
"Il
lato basso del quadrato" di Giuseppe Vetromile, nota critica di Stefania
Di Lino.
‘Mai
finiremo l’esplorazione/ e la fine del nostro esplorare / Sarà giungere dove
iniziammo/ E sapere per la prima volta il luogo.’
(T.S.
Eliot, parte finale di Little Gidding)
‘:
si va per tentativi aritmetici
soppesati
la sera
prima
di addormentarsi’
(G.
Vetromile, Il lato basso del quadrato, pag.79)
Nella
narrazione psicoanalitica, si dice che l’oggetto da perseguire non sia tanto
quello che rientra nel linguaggio, quanto ciò che da questo ne rimane escluso.
Trovo
tale definizione adattabile anche al linguaggio poetico che, perseguendo
l’innominabile, si inerpica lungo i condotti ventrali di una lingua imperfetta,
quindi mai esaustiva nell’esprimere il ‘tutto’, almeno nella direzione che il
poeta ricerca.
Percorrendo
questi sentieri, infatti, ci si imbatte in continue fratture, in vicoli
ciechi; cesure tra il significato e il
significante che il filosofo Giorgio Agàmben definisce ‘snodi’ che conducono da
una lingua a un’altra. Tanto è vero che si diventa poeti per dire quello che in
altro modo sarebbe difficile esprimere - forse impossibile - grazie anche alla
traduzione-trasposizione – poesia è comunque traduzione – e alla possibilità di
ribaltamento di registro e di piani di significazione; grazie e in virtù di uno
slittamento di livello - dovuti anche all’uso di figure retoriche- che solo
l’arte e la poesia, per ambizione libertaria e per un mandato preciso di
svincolamento dall’ordinario, possono concedere.
Ma
tale libertà espressiva, per quanto pirotecnica e immaginifica, nella
traduzione del suo compiersi, - nel suo farsi ‘carne e sangue’, come dice il
Vasari a proposito della pittura eretica di Piero della Francesca – tale
libertà espressiva, dicevo, nel poeta
non potrà mai sottrarsi alla finitezza della materia e all’imperfezione della
parola: limiti dettati da un imprescindibile principio di realtà con cui
l’artista deve necessariamente misurarsi per poter realizzare la sua opera. Si
cede quindi qualcosa del progetto originario (o del sogno), e si acquista
qualche altra in termini di creazione sul piano della realtà. E’ esattamente da
questo momento che l’opera diventa autonoma per acquisire un’identità tutta
sua, a volte sorprendente persino per lo stesso autore.
E
Giuseppe Vetromile, poeta, si colloca in una posizione di un realismo raro e
disarmante, aderente alla terra, avendo ben presente che tali limiti
appartengono esattamente a tutti gli esseri viventi, situando in tal modo
l’elemento umano non in posizione egemonica o antropocentrica - molto lontana,
anzi antitetica è infatti l’idea di
dominio su chicchessia- ma pari a un
filo d’erba o a un coleottero, se non altro per destino, ma forse anche per
scelta, situandosi nella parte bassa (forse la più viscerale?) di un’ipotetica finestra (quadrata). In ogni caso parallelo alla terra.
E
tali limiti Giuseppe li dichiara con umiltà quasi mistica, direi francescana,
con quella sobrietà e quel certo distacco che il caso, nella sua posizione
geografica (già il Sud! ma a Sud di cosa?) gli conferisce.
Lo
fa chiaramente, onestamente, senza infingimenti esornativi, già nel titolo e nell’ introduzione che lui
scrive per il suo libro – [...] Partire
da costituenti minimi, da geometrie di base, da sottili lati fortemente
aderenti alla terra [...] - , ma
anche in alcuni versi, in cui viene citata la concretezza della materia:
[...]
Perduti noi
siamo mia cara
nelle viscere
della materia
Cantare al cielo
non serve
non serve il
nostro sbattere d’elitre fasulle
[...]
La
geometria piana dunque, e più genericamente intesa, una visione scientifica
della materia che ci rende corpi proiettati nello spazio, (forse ologrammi
mescolati alla ‘stessa sostanza dei sogni’), sono il leit motiv, il filo rosso che ci guida tra i versi, ed è ciò che
intride e pervade il discorso lirico di Giuseppe Vetromile nel suo poema, alto
per forma e per intenti, ma che non rifugge da una certa sfumatura intimista –
commoventi i testi dedicati alla madre e al padre - , e un certo tono
colloquiale, dovuto all’intercalare ricorrente con cui si rivolge a una
ascoltatrice ideale, appellandola affettuosamente con ‘mia cara’; un interporre quasi anaforico che rende il dettato
poetico ancor più catturante, originale anche per l’uso dei due punti collocati all’inizio del verso.
E
l’uso della metafora geometrica, attinente alla formazione culturale del nostro
poeta, in effetti, si giustifica ricordando l’etimologia della parola stessa
che deriva dal greco antico γή =
‘terra’ e μετρία, metria = ‘misura’, e pur evitando di citare
importanti pensatori dell’antichità a tal proposito, comprendiamo appieno
l’accezione filosofica del termine e il portato simbolico su cui si fonda la
felice intuizione lirica e direi tutto l’assioma poetico di Giuseppe
Vetromile.
Ciò
anche a sfatare il persistente pregiudizio di un antagonismo, anzi addirittura
di una incompatibilità, tra la visione poetica del mondo, che si vuole per
ignoranza e pregiudizio, più romantica ed evanescente, contro un presupposto
rigore della geometria e dei numeri più in generale, che in quanto tali,
dovrebbero essere più credibili rispetto alla prima. Ma, e chiedo, esattamente
in virtù di cosa?
Per
ciò che mi compete, visto e appurato l’uso manipolativo delle cifre quanto
delle parole, agilmente sorvolerei su tale infondato stereotipo, comprendendo
in un unico orizzonte l’imprescindibile dialettica tra pittura e filosofia,
matematica e poesia, scienza e arte, in passato tutt’altro che disgiunti, senza
preclusioni di sorta, poiché è proprio la letteratura stessa a parlarci spesso
di scienza, interrogandosi, proprio come il nostro poeta, sulla condizione
umana e sul senso della nostra postura nel cosmo.
Anzi,
in questo caso è il poeta a denunciare la fallacità della scienza, avvisandoci
quasi alla maniera di Dostoevskij, che la ragione non è tutto e non soddisfa
completamente, non basta, e la geometria
con i suoi teoremi, o la matematica con i suoi numeri, non spiegano, perché non
sono in grado di spiegare: Da questa casa pitagorica non sfuggirò/ che
al declino dei numeri totali/.quando avrò reso le mie cose al mondo/ e sarò
sogno di me stesso/in cammino tra le stelle/ (pag.18).
E nei versi del nostro poeta, la vita è
rappresentata ossimoricamente come un ‘cerchio’ tutt’altro che perfetto, anzi
‘ambiguo’, con tutte le manifestazioni dell’esistere, l’affanno del vivere, le
illusioni (pag. 22):
Ho con me una
tabella
Non entra la ragione
in questo breve spazio di luce
cunicolo tra una
preghiera e un altro affanno
non entra
l’evidenza del teorema euclideo
nel cerchio
ambiguo della vita
: da una morte
non si ricava l’equazione del cosmo
e il sogno
continua all’infinito
come sparlando di
questa verità di bocca in bocca
Ho con me una
tabella
mia cara
per calcolarmi i
passi esatti lungo il crinale
e lo sbattere
giusto delle ali
verso il cielo
: così almeno
l’illusione è perfetta
quanto la
felicità di un’addizione
ma è tutto vano
: ho compreso il
gioco della materia
in questi
laterizi abbandonati
nessun grido
nessuno dolore
: il paese finto
giace
sotto gli occhi
stupefatti
e continuiamo
mia cara a credere
che tutto stia
solo ora
a iniziare
Un
poeta, quindi, è tale se è portatore di una visione del mondo, di un suo
specifico originale punto di vista e su di sé assume, poeticamente parlando, le
conseguenze di tale visione. Parlo della responsabilità della parola e della
soglia verso cui, il poeta conduce i suoi lettori.
Giuseppe
Vetromile, come dicevo, si dichiara da subito con la sua ‘poesia onesta’ (pag.9):
Geometrie spurie
la parte bassa
del quadrato è un lato sottilissimo
umile inerte
e sta fermo
dall’eternità della legge
a sorreggere le
sorti della buona geometria
laddove
per ‘buona geometria’, si legga una possibile vivibile traduzione di senso dello
stare al mondo, ma anche – e siamo al topos poetico – l’andarsene da questo
mondo (pag.71):
[...]
Dove andrò la
casa sarà memoria d’aria e d’ombra
e sarò scritto
col dito di Dio sulla faccia della terra:
di me più nulla
eppure in ogni dove
combacerò
perfettamente a tutto l’orizzonte
e
così via fino al bellissimo testo sul fabbricato Esse che chiude il poema sulla inesauribile circolarità che
alterna la vita alla morte, e viceversa, o se si vuole, tra l’entrare e
l’uscire dal mondo.
In
uno splendido dramma dedicato a Galileo,
in cui la diatriba, visti i tempi,
si gioca tra religione e scienza, ma il paragone calza benissimo anche
con la poesia, Bertolt Brecht fa dire al fisico e astronomo del ‘500 :
‘Rimetteremo tutto in dubbio [...]
Quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna e non lo
scriveremo più, a meno che posdomani, lo ritroviamo un’altra volta. Se qualche
scoperta seconderà le nostre previsioni, la considereremo con particolare
diffidenza. [...] E solo quando avremo fallito, quando, battuti senza speranza,
saremo ridotti a leccarci le ferite, allora, con la morte nell’anima
cominceremo a domandarci se per caso non avevamo ragione.’
Stefania
Di Lino
6/3/2019